A inaugurare il blog, è un libro fresco di stampa e stimolante di pensieri nuovi. Siamo stati alla presentazione, convinte che molte di voi si sentiranno coinvolte e riconosciute nella propria vita quotidiana.
Il titolo del libro esprime una verità: “NON è UN PAESE PER MADRI”.
Ve lo vogliamo raccontare insieme all’autrice Alessandra Minello, ricercatrice demografica al Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università di Padova. Ringraziamo Alessandra per aver accettato l’invito per l’intervista.
La prima domanda che rivolgiamo ad una mamma che ha saputo conciliare l’attività di studiosa ed esperta ricercatrice è:
Da dove è arrivata l’idea e la costanza di scrivere questo libro?
L’idea è nata da dieci anni di lavoro perché nel 2021 mi sono resa conto che c’era un filo rosso che univa tutto quello su cui avevo lavorato negli ultimi anni e questo filo rosso era di fatto il “mito della maternità”. Mi pareva che tutto quello che avevo studiato in termini di differenze di genere, di dinamiche legate alla fecondità, e non solo, ma anche alla scelta delle carriere e alla formazione delle famiglie, avesse un qualcosa in comune. Questo qualcosa in comune era proprio il mito della maternità, una potente forma di pressione che pesa sulle donne, madri o non madri nel nostro paese.
La costanza di ricercare e scrivere è nata dal fatto che quell’anno per questioni personali, ma anche globali legate alla pandemia, mi sembrava l’anno giusto per raccogliere i pensieri e metterli in fila. Quindi, invece di vivere una vita sociale intensa al di fuori delle mura di casa, ho preferito chiudermi un po’ e rimanere seduta al tavolino a scrivere, pensando che quei pensieri potevano essere utili alle donne che avrebbero poi letto il libro, ritrovando in realtà nei dati che uso, episodi della loro vita quotidiana.
A giocare un ruolo centrale nella carenza di nascite non sono solo fattori strutturali, ma anche e soprattutto culturali, come la divisione dei ruoli. Ci potresti spiegare questo punto e cosa si intende per “gender revolution” ?
Con questa domanda torniamo al mito della maternità. Secondo il mito sarebbe la donna a essere biologicamente più portata per la cura della famiglia, più di quanto ne sia l’uomo. In realtà la propensione biologica è stata smentita ed è una questione culturale, che in Italia è particolarmente radicata e porta un grande sbilanciamento nel ruolo della cura ovvero di tutte quelle azioni quotidiane che vengono svolte in casa a favore della famiglia e dei figli, quando ci sono. Tante azioni ripetitive nel nostro paese sono sbilanciate più che altrove, perché abbiamo degli standard di cura molto alti e un po’ perché ci sono di fatto uomini poco collaborativi. Sta iniziando ad aumentare la partecipazione maschile al ruolo di cura, però aumenta soprattutto in alcuni strati della popolazione, soprattutto in quelli più giovani e istruiti, dove gli uomini partecipano di più, ma non ancora a tutte le azioni di cura. Per esempio, gli uomini sono molto più partecipi in tutto ciò che riguarda il gioco con i figli, ma meno alle azioni più ripetitive, come può essere la pulizia della casa o cucinare. Ci sono dati che dimostrano effettivamente questo squilibrio. E proprio questo squilibrio impedisce che avvenga la rivoluzione di genere.
La rivoluzione di genere è un concetto che si articola in due fasi; nella prima ci sono le donne che entrano nel mercato del lavoro, nello spazio pubblico, arrivando ad avere ruoli decisionali e ruoli apicali. In questo l’Italia anche se lentamente, si sta muovendo, perché comunque la partecipazione femminile nel mondo del lavoro sta aumentando ed è aumentata negli ultimi decenni; iniziano ad esserci anche dei nomi famosi di donne in ruoli apicali.
La seconda fase è quella dove gli uomini sono più presenti nel ruolo di cura in famiglia. Per quanto riguarda questa fase, come detto, siamo assolutamente arretrati.
Chi sono le mamme di oggi e perché l’Italia non è un paese per mamme lavoratrici?
Le mamme di oggi rispetto alle mamme del passato,hanno figli in più tardi età. L’Italia è il paese con la percentuale di primi figli dopo i quaranta anni più alta in Europa.
Sono mamme che spesso hanno un figlio unico, mentre in passato c’erano più famiglie numerose. Le mamme sempre di più devono combinare sempre di più lavoro e famiglia perché partecipano di più al mercato del lavoro retribuito e formale.
Si dice che non è un paese per mamme lavoratrici e ci sono due direzioni.
La prima riguarda le donne bassamente istruite, che tendono a lasciare il lavoro quando nascono i figli. Lasciano il lavoro sia perché ci sono minori risorse per sostenere i costi nell’esternalizzazione della cura, per esempio i costi degli asili nido, sia perché c’è un minor attaccamento al lavoro insieme ad una prevalenza di attitudini più tradizionali ai ruoli di cura che rimangono esclusivamente sulle loro spalle.
La seconda direzione riguarda le altamente istruite che si vedono rallentare la carriera perché, come si diceva prima, anche su di loro pesa di più il ruolo di cura e quindi è più difficile partecipare ad un mondo del lavoro altamente competitivo e soprattutto caratterizzato da un grande precarietà.
All’aumentare del numero dei figli, nel nostro paese, cala la percentuale di donne che rimangono nel mercato del lavoro. Quindi le donne con più figli escono di più dal mercato del lavoro, più di quanto avviene in altri paesi. Tutti questi fattori, insieme ad un mercato del lavoro molto competitivo con regole rigide sulle performance e sulla produttività, ancora basate su un modello esclusivamente o prettamente maschile, di sicuro non aiutano a combinare questo doppio ruolo.
Perché nel libro riferisci spesso al mito della maternità accennando al fatto che la libera scelta di avere o non avere figli non è ancora ad oggi così libera?
Perché il mito della maternità non agisce soltanto sulle donne che hanno figli creando una forte pressione verso la perfezione. In particolare, crea dei sensi di colpa verso chi lavora, quando non è presente come madre, come genitrice, ma anche quando è in casa perché non è altamente performante nel lavoro. Ma agisce anche su chi madre non è. Tutte, anche le madri prima di diventare tali, hanno sperimentato la forte pressione sociale da parte dei familiari soprattutto, ma più in generale da parte della società rispetto alla maternità. Esiste un gruppo di non madri per scelta che sono le donne “childfree”, che nel loro progetto di vita non intendono avere un figlio. Fortunatamente si stanno facendo sentire molto dal punto di vista sociale e stanno creando un’attenzione rispetto a questo gruppo, ma allo stesso tempo è un gruppo ridotto in termini numerici. Sono meno del 2% della popolazione femminile, secondo i dati Istat del 2016.
Questo significa che non siamo così libere di esprimere anche una posizione di non desiderio di maternità e tutto ciò in un paese in cui le non madri sono sempre di più. Abbiamo un quarto delle donne nate negli anni Settanta che non hanno figli. Sono poche le non madri per scelta e sono molte quelle che la vita ha portato in questa direzione. Perché siamo in un’epoca di grande precarietà, non soltanto lavorativa, ma anche affettiva. I percorsi sono complessi e queste precarietà, lavorativa ed affettiva non si aiutano vicendevolmente nel trovare un equilibrio, una stabilità.
Arriviamo alla stabilità, anche lavorativa, sempre più tardi e questo significa essere di fronte sempre di più a problemi di fertilità, di possibilità di fatto di avere dei figli. Tutto l’insieme di questi aspetti rimane sempre sotto il grande ombrello del mito della maternità che è anche contro intuitivo in un paese in cui nascono pochi figli.
I papà d’oggi chi sono? Forse non è nemmeno un paese per i padri?
Grazie per questa domanda, mi viene posta molto spesso, anche durante le presentazioni, magari da chi non ha letto il libro e non sa che c’è proprio il capitolo sulla questione della paternità. È una domanda che parla dell’interesse a guardare la questione in maniera più ampia.
I nuovi padri iniziano a mettere in dubbio la divisione dei ruoli, vogliono essere più partecipi, almeno a parole, nella vita dei figli. Poi nei fatti ridefiniscono meno, rispetto alle madri, per esempio, i loro tempi di lavoro quando nascono i figli. Questo un po’ perché si adagiano sul ruolo che hanno, un po’ perché su di loro grava una pressione diversa dal mito della maternità, che è il mito del lavoro. Gli uomini sono ancor più stigmatizzati nel momento in cui sono disoccupati. C’è ancora l’idea del padre che deve mantenere economicamente la famiglia. Invece si è capito che ci vogliono due lavoratori, due persone che lavorano perché si alzi la probabilità di avere dei figli. Sono padri che mettono in discussione il ruolo tradizionale di genitore, ma lo fanno più lentamente di quanto sta avvenendo per le madri, perché la grande spinta propulsiva alla rivoluzione di genere è sicuramente più femminile che maschile. Sono padri che si trovano di fronte loro stessi ad un mercato del lavoro e a delle istituzioni che riguardano i figli, come quelle della scuola, che tra loro non si conciliano. E questo grande impegno anche nell’ orario lavorativo, dove c’è una forte competitività, può portare ad un rallentamento anche per loro nella stabilizzazione delle carriere e tutto questo sicuramente non favorisce la loro presenza.
Se la domanda è diretta, non è nemmeno un paese per padri, la risposta è no. Come non è paese per madri non lo è per padri. Ma sono fiduciosa perché oltre a vederci una questione di genere in questi ragionamenti ci vedo anche una questione generazionale. Veniamo dal periodo della pandemia in cui è stato messo in dubbio il modello di vita contemporaneo che richiede un grande sforzo lavorativo. Perché si è visto che alla fine anche di fronte ad un grande impegno lavorativo non si ha un ritorno economico e di benessere così alto. Le nuove generazioni stanno cercando sicuramente un equilibrio maggiore tra vita privata e vita lavorativa che non può far altro che giovare alle generazioni future, anche a quelle di genitori, di trovare un equilibrio tra le due parti.
Per concludere con un tono positivo, spero che andremo sempre più in questa direzione di un riequilibrio tra le varie parti della vita che sempre più fanno parte dell’identità maschile, ma anche femminile.
Dopo questa interessante e coinvolgente chiacchierata con l’autrice Alessandra Minello, ci verrebbe da concludere che per diventare un paese per madri, non basta l’incoraggiamento al congedo parentale e l’aumento dei servizi per l’infanzia, che comunque sarebbero già un bell’inizio, ma serve superare questo gender gap e sfatare il mito della maternità, facendo crescere le nuove generazioni in famiglie dove è normale vedere il papà cucinare o pulire la casa.
Personalmente ammetto che gestire una famiglia e un lavoro non è facile, soprattutto quando non ci sono i nonni vicini. La soluzione non è avere una babysitter qualche ora o lasciare il lavoro a cui tieni e per il quale hai fatto tanti sacrifici. Per me è importante avere vicino un compagno di vita che condivida con me decisioni e scelte e che mi supporta ogni giorno nel quotidiano. Crescere una famiglia è compito di entrambi allo stesso modo e misura. Anche se la mamma è sempre la mamma, avere vicino una valida spalla al fianco rende tutto più facile e bello.
Apprezzo e trovo molto intelligente il fatto che da poco anche i papà possano prendere dei congedi dal lavoro per stare con i propri figli e non sia sempre solo la madre a sacrificarsi. Ma come dice Alessandra Minello nel suo libro, nessuno si deve sentire in colpa, né la mamma che sta al lavoro, né il papà che si è preso una pausa dal lavoro. La società attorno a loro non li deve vedere come alieni, ma anzi apprezzare questo scambio di ruoli e di aiuto reciproco.
Chiamatela genitorialità, o rivoluzione di genere. Io la chiamo semplicemente famiglia, dove ognuno deve dare il suo contributo in egual modo. Così i figli cresceranno con questi valori e appena possono, anche dai primi anni di vita anche loro aiuteranno in casa, senza continuare a pesare e calcolare tutto sulla mamma…. fino a 30 anni e oltre!
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